Padiglione Italiano EXPO70, Osaka 1970
Negli anni ‘60, la “rudezza” del cemento a faccia a vista costituiva l’immagine dominante dell’espressione architettonica internazionale. Tuttavia, parallelamente ad essa, coesisteva un campo di ricerca condotto sul filone dell’utopia – Archigram, Metabolism, Superstudio – che indagava la tematica della città-macchina: tecnologica , temporanea, senza storia, decontestualizzata.
Nell’ambito di questa seconda corrente di sperimentazione, si colloca il progetto per il padiglione italiano all’Expo degli anni ’70 ad Osaka, in Giappone. La ricerca formale, strutturale ed i materiali impiegati costituiscono, di fatto, la prima sperimentazione linguistica realizzata dell’high tech italiano. Questo progetto segna, indubbiamente, un momento di maturazione architettonica, strutturale e spaziale dell’attività dello Studio Valle, in cui la ricerca, traendo pretesto dal carattere temporaneo dell’opera, si avvia verso la sperimentazione di un progressivo allontanamento dalla concezione tradizionale trilitica di spazio e struttura. L’assenza di specifiche connotazioni del contesto, diviene pretesto per un esercizio concettuale condotto sulla maglia urbana, riprodotta e simbolizzata dall’edificio stesso. La regolarità del tessuto urbano subisce però una deformazione lineare, adagiando le proprie direttrici su piani inclinati. Il progetto è, quindi, concepito come sorta di microcosmo in grado di ricreare la complessità dell’immagine urbana attraverso la dilatazione di spazi, gli stimoli percettivi e la velocità di percorrenza.
Gli spazi interstiziali del progetto (della città) divengono “lo spazio” espositivo, il luogo dell’apprendimento e della riflessione, concepito nella sfera del non convenzionale: “…con lo spazio del padiglione prescelto e assimilabile a tre campate di dimensione crescente nel rapporto 1 a 2 a 3, contrappuntate da quattro elementi strutturali caratterizzanti l’organismo all’esterno, risulta evidente la qualificazione di uno spazio estremamente dinamico la cui unitarietà è ritrovabile continuamente come sintesi di articolazioni modulari complesse. Era necessario individuare due percorsi, o meglio due possibilità di percorrenza, di cui il primo breve ed estremamente sintetico e il secondo, in derivazione dal primo, più articolato, complesso e se si vuole anche più “faticoso”. Il primo percorso doveva permettere una visione generale attraverso la quale il visitatore leggesse otto o dieci oggetti importanti riconducibili immediatamente ad immagini unitarie, mentre il secondo percorso avrebbe “calato” il visitatore nell’analisi degli argomenti esposti…”. La costruzione, in acciaio e vetro si compone di una serie di 10 elementi architettonici base: sei “contenitori” a sezione rettangolare e lunghezza variabile inclinati di 30°, e 4 tubi o “nodi”, inclinati di 30° ma opposti ai precedenti. La struttura è stata concepita in modo da essere particolarmente efficace alle scosse sismiche: lo slittamento dei corpi principali è finalizzato all’ottimizzazione dell’inerzia. I solai inclinati che si innestano a terra sono assimilabili a delle enormi mensole rigide che, a differenza di quanto avviene con una struttura trilitica, trasmettono direttamente le azioni sismiche al terreno. Il progetto di Osaka traccia una linea di demarcazione rispetto alla primissima produzione dello Studio Valle, fortemente vincolata dal ruolo della committenza e dall’immagine architettonica che, conformemente alla poetica architettonica del momento, era ancora gravata dal peso della materia.